Cassazione penale, SS.UU, sentenza 21/07/2016 n. 31669
Il limite di aumento di pena non inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave, di cui all’art. 81, quarto comma, cod. pen., nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall’art. 81, comma 4, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, comma 4, cod. pen., opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.
Nell’affermare tale principio la Corte ha di fatto risolto il dibattuto tra due orientamenti: un primo orientamento maggioritario, secondo cui la recidiva (che non rappresenta un mero status soggettivo desumibile dal casellario giudiziale, bensì va validamente contestata e valutata) doveva ritenersi applicata anche in caso di ritenuta equivalenza della stessa alle attenuanti, operando, così, il limite minimo per l’aumento indicato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen. e un secondo, minoritario, che riteneva invece il giudizio di equivalenza produttivo di un sostanziale annullamento dell’efficacia della recidiva, la quale non potrebbe, quindi, ritenersi applicata, con la conseguenza che l’aumento per la continuazione non deve sottostare a detto limite.
L’art. 81 c.p. disciplina il concorso formale e il reato continuato. In particolare, al comma 4, dispone che se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 c.p., quarto comma, l’aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.
Nell’applicare un diverso regime sanzionatorio a seconda che il concorso sia materiale o formale, distingue, nell’ambito della continuazione del reato – che rappresenta una particolare ipotesi di concorso materiale trattato specificamente in quanto i vari fatti illeciti posti in essere dal reo, fanno parte tutti di un medesimo e unitario disegno criminoso – il caso in cui sussiste la recidiva, in quanto, se da un lato la continuazione è sintomatica di una minore colpevolezza, la recidiva ne attesta invece una maggiore intensità. La lettura di questo comma ha condotto nel tempo a varie letture sia contra reum che in favor rei.
La giurisprudenza per lungo tempo ha escluso la compatibilità tra continuazione e recidiva in virtù della considerazione della non armonizzabilità delle conseguenze connesse all’una o all’altra da parte del legislatore, escludendo quindi che si potesse tenere conto della recidiva laddove si applicasse la continuazione del reato tra il reato per cui fosse pronunciata sentenza passata in giudicato valutato come più grave (reato base) e quello successivo, oggetto di altro giudizio.
La stessa Cassazione tuttavia si era anche espressa per la compatibilità tra i due istituti, basandosi sul rilievo che il fondamento logico della recidiva (da riferire solo al reato singolo) comporta un giudizio più rigoroso in termini di pericolosità sociale non incompatibile, tuttavia, con la minore riprovevolezza del reato continuato (con riguardo alla pluralità dei reati commessi nell’esecuzione di un unico disegno criminoso rispetto alle ipotesi ordinarie di concorso di reati.
Sicché – secondo tale orientamento – sussistendone le condizioni, vanno applicati entrambi gli istituti, praticando sul reato base l’aumento di pena per la recidiva e quello per la continuazione, che può essere riconosciuta anche tra un reato già oggetto di condanna irrevocabile ed un altro commesso successivamente alla formulazione di detto giudicato.
Chi resta perplesso sul piano logico deve leggere la normativa del 2005 in materia di attenuanti generiche, recidiva, usura e prescrizione, in un’ottica di scelta politico-criminale intesa a non indulgere in alcun modo nei confronti dei soggetti cui viene contestata la recidiva reiterata.
Parte della dottrina tuttavia è ancora allineata alla tesi tradizionale dell’incompatibilità tra recidiva e continuazione, dal momento che tra i due istituti vi è un rapporto di contraddizione: un favor rei per il reato continuato che discende dal medesimo disegno criminoso; una maggiore severità per la recidiva, ove, invece, la precedente sentenza di condanna avrebbe dovuto distogliere il reo dal rimanere nell’area dell’illecito.
Di diverso avviso è un altro indirizzo secondo il quale, sotto il profilo applicativo, non vi possono essere ostacoli alla tesi della conciliabilità tra recidiva e continuazione, in quanto i due istituti operano su piani diversi: la dichiarazione di recidiva assume rilevanza nel caso in cui inerisca al reato più grave, contribuendo così a determinare la quantitas della pena, mentre il regime della continuazione riguarda il complesso degli illeciti unificati dal disegno criminoso.
Con la Legge nota come ex Cirielli infatti la disciplina del cumulo giuridico ha subito una modificazione con riferimento alla categoria dei recidivi reiterati di cui al quarto comma dell’art. 99 cp. Con riguardo ad essi, infatti, l’incremento della pena base, in applicazione del cumulo giuridico , non può essere inferiore ad 1/3 della pena base stessa.
Tale intervento legislativo si è discostato dai criteri che avevano ispirato la precedente normativa di cui al d.l. 1974/99, che aveva mitigato l’effetto del cumulo materiale delle pene sostituendolo con il cumulo giuridico, che prevedeva in linea generale più consistenti aumenti di pena ed altri effetti sfavorevoli lasciando al giudice un campo di azione più limitato nella graduazione della pena, tanto che l’aumento minimo per la continuazione in caso di recidiva reiterata ora si pone solamente nel caso in cui la recidiva venga ritenuta dal giudice sussistente ed utilizzata nel giudizio di bilanciamento, non rilevando il diverso caso in cui la recidiva sia stata, di contro, esclusa.
Pertanto il problema che ci si potrebbe porre in linea principale è l’individuazione della corretta accezione del verbo applicare utilizzato dall’art. 81 c.p., comma 4, verificando, quindi, quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal Giudice.
Va osservato, inoltre, come in alcune occasioni in cui la giurisprudenza di legittimità ha affrontato questioni comunque riferite alla recidiva, si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determinasse conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva.
De jure condendo, in base a quanto stabilito dalla Suprema Corte, il ragionamento che ha portato a pronunciare la sentenza de quo, non si pone in contraddizione col principio del favor rei, dato che il giudice può sia escludere radicalmente la recidiva, sia ritenerla sussistente e confrontarla con le circostanze concorrenti, pervenendo ad esiti diversi quanto a dosimetria della pena, rimettendosi il giudizio di comparazione alla sua discrezionalità.
Fonte: http://www.altalex.com/documents/news/2016/08/02/recidiva-equivalente-a-attenuanti-si-applica-limite-di-aumento-di-pena
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