Cass., sent. n. 6497/2021
In tema di inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore derivante da una condizione patologica di lunga durata, i doveri sussistenti in capo al datore di lavoro, che vincolano il suo potere di recesso e quindi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non si limitano al consolidato obbligo di repêchage.
Non basta quindi all’azienda dimostrare l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, al fine di salvaguardarne l’occupazione.
Con sentenza n. 6497/2021 la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito come occorra altresì far corretta applicazione dell’art. 3 co. 3bis D. Lgs. 216/2003, che impone a datori pubblici e privati l’adozione nei confronti di persone con disabilità di “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro, per garantirne la parità di trattamento.
Il concetto di “accomodamento” ricomprende i provvedimenti intesi all’inclusione professionale mediante misure di carattere tecnico-materiale come la sistemazione o l’adattamento di locali, strutture e attrezzature per consentire l’accesso e lo svolgimento della prestazione lavorativa, o attraverso interventi di carattere organizzativo quali la riduzione o la rimodulazione dell’orario di lavoro, il cambiamento dei turni, la diversa ripartizione di compiti e mansioni tra i dipendenti, la fornitura di mezzi di formazione o inquadramento.
Il parametro della “ragionevolezza” esclude, invece, il necessario ricorso a misure che comportino oneri finanziari sproporzionati in rapporto alle dimensioni, alle risorse e alle peculiarità dell’impresa o che sacrifichino indebitamente le condizioni di lavoro dei colleghi. Si tenga conto che la sproporzione è esclusa “se l’onere è sufficientemente compensato da misure esistenti nel quadro della politica nazionale a favore dei disabili” (cfr. art. 5 Direttiva 2000/78/CE) e quindi ad esempio in presenza di fondi pubblici o sovvenzioni fruibili dall’impresa.
Pochi i dubbi che nella valutazione dell’adempimento di tale dovere, condizionante la validità di un eventuale licenziamento, l’organizzazione aziendale diventi più permeabile al sindacato giudiziale, risentendone in certa misura (ma in rapporto a un preminente diritto) il declamato principio della sua intangibilità.
L’obbligo posto dalla disciplina antidiscriminatoria di cui al D. Lgs. 216/2003 (normativa di recepimento della Direttiva 2000/78/CE) è tanto più rilevante in considerazione dell’ampia platea di lavoratori potenzialmente interessati, poiché non circoscritta dall’appartenenza degli stessi alle c.d. categorie protette (di cui alla legge 68/99) o dalla sussistenza dei requisiti di cui alla legge 104/90 né dall’origine della menomazione.
Come precisato dalla Suprema Corte con sentenza n. 6798/2018, nell’applicazione dell’obbligo di “accomodamenti ragionevoli” va recepita l’ampia nozione comunitaria di “handicap” e “disabilità”, così come ricostruita interpretativamente dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (tra le altre, con sentenza 11.4.2013 nelle cause riunite C-335/11 e C-337/11):
“La nozione di handicap di cui alla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata.”
Fonte: https://www.cfnews.it/diritto/l-inidoneit%C3%A0-sopravvenuta-del-dipendente-alla-mansione-e-obbligo-di-accomodamenti-ragionevoli/