Cassazione Civile, SS.UU. sentenza 15/03/2016 n° 5072.
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.
È questo il principio di diritto elaborato dalle Sezioni Unite in materia di illecito ricorso al contratto a tempo determinato.
La questione di fondo, posta dalla fattispecie che ha occasionato il giudizio della Suprema Corte, è relativa alle legittimità della normativa interna preclusiva della costituzione del rapporto a tempo indeterminato per i contratti a termine abusivi alle dipendenze di una pubblica amministrazione.
La questione controversa, osservano le Sezioni Unite, chiama in causa la normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato, “la quale, pur articolata in varie disposizioni mutate nel tempo, si è mossa costantemente lungo una direttrice di fondo segnata dall’esigenza costituzionale di conformità al canone espresso dall’art. 97 Cost., u.c., che prescrive che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.
Rimane però che la reazione dell’ordinamento giuridico all’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato è, nel lavoro pubblico contrattualizzato, differenziata rispetto a quella nel rapporto di lavoro privato, dove è prevista la conversione del rapporto, oltre al risarcimento del danno.
Quindi vi è una disciplina differenziata tra pubblico e privato che pone un problema di compatibilità sia, nell’ordinamento interno, con il principio di eguaglianza, sia nell’ordinamento sovranazionale, con la disciplina comunitaria. La questione, nei suoi due profili, è stata risolta rispettivamente dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e da quella della Corte di giustizia.
In particolare, per la Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio è giustificata dal fatto che il principio dell’accesso mediante concorso rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati.
Ciò posto, prosegue la Corte, occorre esaminare – per misurare il grado di effettività della tutela del lavoratore – il profilo del risarcimento del danno in caso di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine.
Il danno non si sostanzia nella perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perchè una tale prospettiva non c’è mai stata: in effetti, se la pubblica amministrazione non avesse fatto illegittimo ricorso al contratto a termine, non per questo il lavoratore sarebbe stato assunto a tempo indeterminato senza concorso pubblico.
Il lavoratore che subisce l’illegittima apposizione del termine o, più in particolare, l’abuso della successione di contratti a termine rimane, invero, confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.
Ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.
In ogni caso l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore.
Occorre allora, conclude la Suprema Corte, un’operazione di integrazione delle normativa in via interpretativa, orientata alla conformità comunitaria, che valga a dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile: in caso di abuso nella reiterazione dei contratti a termine “occorre anche una disciplina concretamente dissuasiva che abbia, per il dipendente, la valenza di una disciplina agevolativa e di favore, la quale però non può essere ricercata nell’ambito della fattispecie del licenziamento illegittimo, perchè questa implica la illegittima perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato, mentre la fattispecie in esame, all’opposto, esclude in radice che ci sia il mancato conseguimento di un posto di lavoro a tempo indeterminato stante la preclusione nascente dall’obbligo del concorso pubblico per l’accesso al pubblico impiego”.
La fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella della cit. L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, che prevede che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371).
In sostanza, il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.
Fonte: http://www.altalex.com/documents/news/2016/03/31/abuso-contratto-tempo-determinato-pubblico-impiego-danno-presunto